La riforma del mercato  del lavoro: una controriforma anticostituzionale 
       
   Maria Grazia Campari 
        
        
        La Ministra Fornero  
        
       
        Sembra giusto definire  la legge n. 92/2012, in vigore dal 18 luglio, una controriforma  anticostituzionale. Vediamo sinteticamente il perché.  
        Nei suoi primi e fondamentali  articoli (1, 4, 35, 36, 38) la Costituzione repubblicana mostra il disegno di  attribuire al lavoro la qualità di agente di partecipazione democratica,  garante della effettività dei diritti sociali, civili e politici dei cittadini.  Il lavoro, quindi, come bene preminente (art. 1) che la Repubblica si incarica  di tutelare e rendere effettivo (art.4). 
        Nella legge 28.6.2012 n.  92 (riforma del mercato del lavoro) si evidenzia l’intento di operare un  capovolgimento dei principi costituzionali, attraverso la surrettizia  controriforma dei suoi valori cardine. Questa legge, infatti, ha di mira  l’incondizionato sostegno alle sorti magnifiche del mercato il che significa  obliterare il diritto al lavoro, come bene risulta, anche, dall’incauta  affermazione (o dichiarazione di verità) della Ministra Fornero: il lavoro non  è più un diritto.  
        Infatti, l’art. 1 della  legge n. 92 chiarisce che il bene di riferimento è “il mercato del lavoro”.  Privilegiare il mercato del lavoro ha lo stesso senso del noto concetto “Siamo  tutti nella stessa barca”, prescindendo da chi voga in sentina e chi occupa il  ponte di comando. 
        Nel rapporto  capitale-lavoro – che si gioca nel mercato- l’art 1 della Costituzione ha  inteso conferire maggior valore al termine lavoro, mentre la legge in esame  tutela l’entità ove si svolge una partita impari, del tutto sfavorevole a chi  non possieda mezzi di produzione o capitale finanziario. 
        La controriforma  Monti-Fornero non è certo un fulmine a ciel sereno, anzi, essa rappresenta, una  sorta di norma di chiusura rispetto alla normativa che, negli ultimi  trent’anni, si è incaricata di annullare le riforme di adeguamento  costituzionale del diritto del lavoro, operato negli anni Sessanta e Settanta  del secolo scorso. I riferimenti sono molteplici: la cancellazione del  collocamento pubblico numerico e imparziale in favore della scelta nominativa  introdotta dalla L. 609/1996 (pacchetto Treu), la privatizzazione delle agenzie  per l’impiego del DLgs 276/2003 (legge Biagi), in altri termini, la  legalizzazione delle assunzioni per scelta discrezionale padronale che ha avuto  come esito la discriminazione delle donne e dei giovani. In tempi più recenti  porta ad ulteriore effetto il disegno anticostituzionale, il D.L. 138/2011 che  all’art. 8 stabilisce la derogabilità degli accordi collettivi nazionali e  persino delle leggi dello Stato da parte di accordi sindacali aziendali o  territoriali, vincolanti anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati  stipulanti. E qui si affaccia per la prima volta la possibile deroga (o  annullamento) alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori. Sulla  stessa linea si pone l’accordo interconfederale 28.6-21.9.2011 che estende a  tutti i lavoratori, iscritti e non alle organizzazioni stipulanti, l’efficacia  della contrattazione aziendale, malgrado ciò contrasti con la previsione  dell’art. 39 della Costituzione che esclude tale possibilità per le attuali  organizzazioni sindacali. 
        La recente legge porta a  compimento l’opera di distruzione svuotando la sostanza dell’art. 18 S.L., dando  sostanzialmente via libera ai licenziamenti ingiusti e arbitrari dietro  corresponsione di una scarsa mercede. Rimosso l’architrave della stabilità  reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché  per timore non sarà rivendicato.  
        Come è stato già detto,  la tutela attenuata dell’art. 18 rende più facili anche i licenziamenti  discriminatori, circostanza gravida di conseguenze negative in particolare per  le donne. L’occupazione femminile, secondo dati ISTAT, ha subito un calo del  12,7% nel biennio 2008-2010 mentre l’occupazione maschile è calata del 6,3%. Le  donne sono anche maggiormente colpite dal triste fenomeno delle dimissioni in  bianco che la legge in esame sottopone a convalida attraverso una procedura  accidentata e dai tempi incerti, resa più problematica dalla previsione brevi  termini di decadenza. In alternativa, è prevista una firma di convalida della  lavoratrice in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione  effettuata dal datore. La maggiore semplicità e l’evidente possibilità di  influire sulla manifestazione di volontà di chi si trova in posizione  subordinata, sottoposta a ovvie pressioni e priva di assistenza sindacale,  renderà evidentemente preferibile la scelta di questa seconda via. Le  conseguenze saranno ancora una volta svantaggiose per la parte debole del  contratto di lavoro. 
        Secondo le dichiarazioni  governative, la legge favorirebbe la “flessibilità in entrata”. In  effetti,  l’art. 1 menziona l’intento di  “contribuire alla creazione di occupazione”, ma la lettura del testo convince  che l’operazione si riduce a favorire i licenziamenti sottraendo diritti  (durevolmente, ora per allora) a chi se li era conquistati. 
        Restano inalterate le 46  tipologie contrattuali, un record mondiale, che sono state create da leggi  succedutesi nel tempo, senza che neppure si tenti una razionalizzazione della  materia. Per esemplificare, solo qualche modesto correttivo (su falsi contratti  a progetto o false partite IVA) che si limita a recepire una giurisprudenza  consolidata. La normativa sui contratti a termine è persino più lassista di  quella precedente poiché cancella la necessaria indicazione della causa  tipizzata. I disincentivi economici per i contratti “atipici”, l’aumento dei  contributi e la complessità delle procedure burocratiche finiranno per  penalizzare lavoratrici e lavoratori in cerca di impiego e/o aumenteranno il  ricorso al lavoro in “nero”. 
        La penalizzazione  riguarderà specialmente le donne che sono la grande maggioranza fra gli addetti  a lavori finti autonomi, quindi non beneficiano di ammortizzatori sociali come  la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione: l’ASPI (Assicurazione  Sociale per l’Impiego) non le riguarda, in quanto inoccupate. 
        Quanto alle misure di  “conciliazione” per le lavoratrici madri, la durata ridicola dei congedi di  paternità (3 giorni) non necessita di commenti. E, quanto al lavoro di cura,  non si può dimenticare che questa legge segue l’altra dello stesso governo che  ha innalzato l’età pensionabile delle donne, ricavando un risparmio che non è  stato destinato a finanziare servizi sociali ad hoc. 
        Occorre sempre  sottolineare che manca in Italia la previsione di una retribuzione minima,  circostanza che penalizza i lavoratori  precari, quindi principalmente le donne. 
        Questa previsione è oggi  più che mai necessaria e dovrà accompagnarsi, in una logica costituzionale di  stato sociale minimo, alla previsione di un reddito di base (basic income) a  carattere universale e incondizionato. Entrambe queste misure contribuiscono a  riconoscere dignità esistenziale a tutti gli esseri umani, ponendosi come  adeguamento costituzionale (art. 38 Cost.), apprezzabile in tempi di  controriforme. In particolare, il basic income offre la possibilità di creare  alleanze trasversali intergeneri/intergenerazionali, caratteristica che è  preziosa perché si pone in controtendenza con la logica mercantile che frantuma  le esistenze dei più. 
        Alcuni aspetti  dell’istituto lo rendono favorevole alle donne. Esso è garantito ai singoli e  non alle famiglie, riguarda gli esseri umani comunque sessuati e non i nuclei  di convivenza tuttora a stretta egemonia maschile, ove il marito dispone  normalmente di tutti i beni in virtù del suo sesso. Suppone che ognuna/o sia  titolare di un pari diritto esistenziale, indipendentemente dalla collocazione  famigliare e sociale. E’, inoltre, favorevole alle donne perché esse sono  maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate anche se  dotate di laurea e di master, quando riescono a entrare nel mercato del lavoro.  Un altro aspetto positivo: viene detronizzato il lavoro per il mercato che  cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza.  (C.Pateman “Freedom and democracy”) 
      Questo concetto risuona  anche alle nostre orecchie di italiane, basta considerare gli art. 1 e 37 della  Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno sgabello a quello  femminile. 
    In altre parole, il  basic income costituisce una garanzia sociale capace di districare il legame  fra lavoro e guadagno, contribuendo alla modifica di una società imperniata su  un bene fortemente sbilanciato e attualmente ridotto al lumicino, il lavoro. 
        
    16 - luglio - 2012   |